Maratona di Stoccolma: tra le maratone distopiche.

01-06-2015 23:25 -

MARATONE DISTOPICHE-STOCKHOLM-
Un anno dopo la mia ultramarathon Stoccolma mi chiamava di nuovo. Dovevo fare un altro sporco lavoro. Avevo bisogno di un paio di ghigne per compiere questa missione. Edulcoravo le difficoltà dell´impresa con invitanti promesse circa un percorso bellissimo e a prova di record personale, e di un clima a dir poco ideale. E i Bastards Massimo e Matteo rispondevano, ancora prima che ne fossi convinto io.
Paracadutati su terra straniera, i meteo ci allarmavano circa la possibilità di tempeste esattamente durante la competizione, ma niente paura, eravamo pronti a tutto, e poi le previsioni sbagliano sempre.
Capita stranamente che ogni volta che vengo in missione in terra scandinava si producano delle condizioni climatiche a dir poco estreme, come se una maratona o un´ultramarathon non fossero di per sé già abbastanza gravanti per il corpo e per lo spirito, e fosse necessaria un´amplificazione nella qualità della sofferenza che ci propone.
Alla fine della missione, in breve briefing, si dirà che a Stoccolma a Maggio non ha mai piovuto così da duecento anni. Mi riecheggia questo romantico parallelismo, che evoco naturalmente ogni qual volta si parla di centinaia di anni: il mese di Agosto dello scorso anno era stato l´agosto svedese più caldo da duecento anni, un momento ideale per correre la mia ultramarathon sotto 30 gradi. Si dirà anche che solo 10000 bohemians sono arrivati al traguardo, dei 22000 iscritti.
Sì, le condizioni erano dure, lo sono spesso, non ci si può aspettare l´idealità, che è una vera eccezione. Ci si ricorda volentieri, razionalizzando come fa la volpe, che le condizioni saranno le stesse per tutti i partecipanti, e questo raccoglierà in noi un senso di partecipazione, di complicità, di comunione di fronte alla difficoltà. Noi bastards, parlo di tutti i runners, siamo per natura degli ottimisti, sappiamo che se cominciamo una distanza la portiamo a termine, sappiamo che c´è da soffrire ma è nella nostra natura l´ottimismo. Sappiamo che riusciremo, perché non è nella corsa la missione, ma nella sfida alla distanza, al tempo, alle condizioni climatiche, alle condizioni fisiche non perfette, alla nostra condizione mentale che ci fa dubitare del nostro orgoglio. Ed è in questa motivazione genetica o ambientalmente modificata, che è da riporre la risposta al perché si fa, al perché farsi male, al perché camminare a zombie i giorni successivi. E nella stessa motivazione cercheremo purtroppamente (.) la causa dei nostri mali, quando non riusciamo più a sentirci, e ci facciamo male sostenuti da un´idea, sbagliata, ma pur sempre un´idea. Morire per delle idee...cantava De André.
Qui nasce un conflitto d´interesse che incarno perfettamente con la mia professione, e che deve essere probabilmente risolto con un compromesso: soffriamo la fatica, evitiamo possibilmente il dolore, anche se le nuances della sofferenza non sempre, né spesso ci permettono tale distinzione.
L´occhio è sulle previsioni per i restanti tre giorni del nostro arrivo. Un´inquietante nube nera sembra confrontarsi con noi: arriverà esattamente al momento della nostra partenza, e senza tregua ci inonderà per tutto il tempo che correremo. Folate di vento a dieci gradi, bagnati, arricchiranno la qualità della nostra sofferenza.
Che splendido presagio: l´idea di non poter terminare la gara ci gelerà addosso le speranze di spassarcela. Una maratona all´estero è pur sempre un bell´investimento emotivo, oltre che economico.
Siamo alla partenza, fa freschino, ma non si sta male, avrei detto: quasi ideale, se restasse così. E un´ombra che mi si disegna in faccia non è la paura della minaccia dell´acqua, ma l´inizio del fronte burrascoso, che però la promette ma non la fa ancora. Quale splendido dono quello di attendere la nostra partenza per cominciare a piovere.
Ci dividiamo per gruppi, l´ordine svedese ti spinge sempre a non contraddirlo, per non passare da italiano, terrone d´Europa. Ma quando tolgono i nastri che dividono i gruppi sono già nel gruppo avanti, dal lato concavo della prima curva, come un Caleo non qualsiasi, che sa sempre da che parte stare. Ironia delle previsioni più precise, tre minuti dopo comincia a piovere, ho ancora il mio sacco di plastica, Vanni´s design, e penso che potrei tenermelo in previsione delle intemperie, ma mi par d´essere eccessivamente Derelict (v.Zoolander), e me lo strappo di dosso. Guardo il cronometro, sono troppo veloce cazzo, siamo a 4:30 ma sto veramente bene, le gambe girano che è un piacere, e non voglio frenare la prima discesa. La pioggia continua costante, e i 10 gradi sono ancora piacevoli, penso di aver fatto bene a tenermi la maglietta sotto la cannottiera istituzionale, che ci vuole sempre sennò il Presidente mi si incazza. Rallento un po´, non voglio rischiare, sono eccessivamente veloce. Me ne accorgo quando si comincia a vedere l´acqua del mare, non solo quella del cielo, e davanti al Palazzo Reale, dove mi par d´intravedere la principessa che mi saluta, arrivano delle frustate di vento che mi placano, mi sento vivo davvero, strano che lo si pensi ogni volta che si arrivi a dubitarne. Cerco la strategia protettiva, mi metto dietro ai vichinghi che si sono messi in formazione testuggine per ripararsi, e si danno il cambio nelle zone più esposte. Capisco adesso che non sarà solo la distanza a farmi soffrire, ma il freddo.
I pacers hanno lasciato agli spettatori i palloncini delle 3:15, tanto era forte il vento, e continuano con delle bandierine negli zaini a dare il ritmo. Muovo le mani in un coraggioso tentativo di sentirmi le dita, mignolo e anulare rispondono con difficoltà. Ma il tunnel che ci porta sulla seconda isola è caldo, asciutto e pieno di tifosi al coperto, le cui grida fanno eco sui nostri cuori e ci danno quella spinta, ancora iniziale, che male non fa.
Siamo sul piatto, e guardare le svedesi che ballano la samba è veramente uno spettacolo. Il primo ostacolo arriva al ponte Vänsterbron, 1,6 km, 30m di dislivello, splendido panorama, ma grigio oggi, addirittura nebbioso, sembra di prendere la scala per l´inferno mentre saliamo il ponte.
Ho smesso di pensare che è freddo, cerco di scendere velocemente, come se i prossimi km potessero essere protetti. Ma sulla Norr Mälarstrand arrivano ancora delle frustate terribili di vento, mi tocco la canottiera, sono già fradicio e mancano tre quarti di gara. Mi concentro sulla parola tre quarti e mi viene in mente la pizza del Montino, ho un pensiero caldo, filante, fritto, piacevole. Ma i tre quarti di pizza si trasformano in un´intera pozzanghera che schivo economicamente. Il vento mi sposta quasi, comincio a guardare in terra e a schivare gli schizzi che fanno sti ghiozzi. So che la partita si giocherà sugli ultimi km, quanto saranno fradici i miei calzini, quante vesciche conterò? Mi permetteranno di correre fino alla fine?
Al quindicesimo ripassiamo dallo Stadion che ci accoglierà alla fine del nostro pellegrinaggio, i nostri sostenitori sono festanti, mostro una faccia tranquilla ma perplessa. E ci dirigiamo verso il parco, la pioggia non smette di batterci, e possibilmente a tratti rovescia con maggior vigore la sua forza. Mi convinco che non ho freddo, sto benissimo, le mie gambe non sembrano le mie, una pseudo anestesia che mi fa andare ancora molto veloce, per i miei parametri.
Ecco che mi soffermo un attimo sul concetto di ottimismo, un atteggiamento mentale esposto alla sua massima potenza. Che cos´è in fondo l´ottimismo? Mi aiuto con la citazione che al momento credo lo descriva nel modo migliore: l´ottimismo è la smania di sostenere che tutto va bene quando si sta male. Ecco la radice concettuale del mio ottimismo.
Il parco è un mangiaebevi costante, saliscendi infinito, è lo spazio della mia ultramarathon, ne conosco le pendenze, ma sto bene. Siamo lasciati a noi stessi, nella natura più incontaminata, non ci sono tifosi, siamo soli. Penso a quanto mi odieranno i miei commilitoni per quelle false promesse sul percorso piatto da record. Nudi e soli nel bosco, penso che le mie gambe girano bene, mentre cerco tra gli alberi una grotta dove potermi riparare in caso.
E mentre guardo gli altri che corrono penso che devono avere un freddo boia, io invece lo sento ma fingo di non saperlo. Mi dico che ho un sistema di riscaldamento interno, un caminetto ad autocombustione che mi protegge. Ma maglietta e cannottiera sono un errore: adesso ho venti chili di acqua addosso, che mi spostano a destra e a sinistra ad ogni passo, mi rincalzo tutto nei pantaloni. Mentre qualcuno si è spogliato e corre nudo sotto l´acqua, non felicemente però.
Alla fine del parco mi fermo, ho i crampi, mancano ancora 15 km, mi tolgo scarpe e calzini in precario equilibrio, mi levo i taping come faceva Chiappucci con la bandana. Ora si comincia a fare sul serio. Riparto come rinato, ma le braccia sono fredde, sento la pancia fredda, le gambe invece vanno a missile, o almeno mi sembra.
Saluto per la seconda volta le ballerine e mi appresto a superare il ponte per la seconda volta, so che dopo questo sarà quasi una passeggiata. Ma alla fine del ponte arrivano ancora a sferzarmi delle frustate di acqua a vento, se possibile peggiori del primo giro. Decido di fermarmi a prendere un caffè. Matteo mi dice: te cosa ci fai qui? Non so cosa rispondere, abbozzo un: cercavo le brioscine per inzupparle nel caffè.
Matteo é carico, io sto bene, ma a sette km dalla fine so che sono sotto i 3:25, mi va bene così. Lui invece vuole spingere, e allora mi faccio tirare. È veramente freddo, meglio aumentare, cerchiamo di tirarci fuori il culo da questa missione, è una gara di sopravvivenza adesso, finiamo dai, andiamo a scaldarci. Spingiamo gli ultimi km ed entriamo nello stadio festante. Sto benissimo, ho solo freddo, sono stanco mentalmente, potrei aumentare la velocità, vedo adesso il riparo, la protezione, come un vero uomo primitivo. Finiamo insieme. Un buon tempo, siamo tutti contenti, mi chiedo se le condizioni non abbiamo migliorato la nostra prestazione, per evitare che ci gelassimo il culo.
Guardo le facce dei ragazzi che arrivano dopo di noi, vedo il senso della missione compiuta, non ne vedo la gioia, ma mi è evidente il senso della liberazione, il compimento di un progetto, comunque e nonostante. Ci avvolgono come uova di pasqua, ma la Damiani non c´è per la foto. Scappo negli spogliatoi tremando, tremano tutti, ovunque. Sembra una danza di corpi freddi, ci sarebbe da riderci su se non se ne capisse perfettamente il senso. Qualcuno è paralizzato e si fa spogliare, tremando blu, vedo un povero guerriero a terra, gli stanno facendo un massaggio cardiaco, penso seriamente che ci si possa fare anche male a fare questo gioco.
Stranamente scendo le scale senza difficoltà e mi spoglio. Cazzo, ho dimenticato le scarpe asciutte, mi dovrò rimettere le rane nelle scarpe. Le condizioni sono state davvero dure, fisicamente sono stato bene, a parte la zona del parco, ho chiuso bene, ma la gara è stata mentale. Una gara così te la giochi ad ogni passo, tra l´idea di mollare o di continuare, è una lezione di vita che si ripete ad ogni passo, un allenamento alla resistenza che trova i suoi benefici anche nella vita quotidiana. Ti abitua a passare tra gli uomini senza essere in guerra, ma con comprensione, insieme ad altri compagni di viaggio, esprimendo ancora una volta una metafora ampiamente sfruttata, che vuole una corsa come la vita. Viverne tante, avere tanti compagni di viaggio rafforza il nostro spirito d´identità, il senso di appartenenza, la voglia di vedere negli altri la ricerca del compimento di un progetto che va in una direzione comune, da raggiungere nonostante gli ostacoli.
La sera mangiamo renna come se l´avessimo cacciata noi. Matteo e Massimo mi guardano incolpandomi: menomale che era piatta e clima ideale...vabbè ma intanto abbiamo fatto il personal tutti e tre... Ecco la complicità, la partecipazione comune, il senso di appartenenza.
-Scacco quella cazzo di birra è la mia!!

Fonte: Andrea Guerrini